In ciascuno dei tre anni del ciclo liturgico, nella quarta domenica di Pasqua, ci viene proposta, attraverso la lettura del capitolo 10 del vangelo di Giovanni, l’immagine altamente evocativa di Gesù buon pastore.
Nell’anno B, i versetti scelti sono indicati come Giovanni 10,11-18. Nei versetti precedenti (1-10) Gesù stesso si è presentato come il pastore, come la porta delle pecore: egli è l’accesso stesso alla vita. L’immagine del pastore ha un grande retroterra biblico e, in realtà, in tutta l’antichità dell’oriente. Dio è il pastore che nell’Esodo conduce il popolo dalla schiavitù verso la terra di libertà. La massima espressione della teologia su Dio – pastore è mirabilmente condensata nelle espressioni del Salmo 23: il Signore è il mio pastore.
Per via di similitudine e di assimilazione, il re e i capi del popolo, i responsabili sono anch’essi pastori. Essi – dai profeti Geremia, Ezechiele e Zaccaria – sono tacciati di essere falsi pastori che agiscono secondo una logica utilitaristica e di sfruttamento del popolo. Su questa base, Giovanni presenta il pastore buono-bello. Bontà e bellezza vanno infatti di pari passo nella Scrittura. Gesù non è buono/bello in senso estetico, né in senso superficialmente morale. Approfondendo l’immagine, con chiaro intendimento di rivelare al credente gli aspetti più nascosti della persona di Gesù, l’evangelista suggerisce tre passaggi concatenati: il contrasto tra il pastore delle pecore e il salariato (vv.11-13); la sottolineatura positiva del pastore autentico, del pastore modello (vv.14-16); ed infine il rilievo, quasi concentrazione, sulla relazione tra Gesù-pastore e il Padre (vv.17-18).
Con una decisione libera, difformemente dall’ordinaria funzione dei pastori di pecore, Gesù “da la vita per le pecore”. Questo dono di sé è connesso con la volontà e l’amore del Padre e con la risurrezione: “ho il potere di offrire la vita e di riprenderla di nuovo”. Si avverte il tratto polemico dell’evangelista verso le autorità giudaiche.
Vari commentatori ed esegeti di Giovanni si sono soffermati ampiamente su questo aspetto: essi non cercano la libertà profonda del popolo, ma lo tengono asservito in un sistema rigido e privo di amore. L’azione pastorale di Gesù esplicita che le pecore sono sue, al contrario del mercenario-salariato che ha vincolo superficiale e per mero tornaconto. Gesù conosce personalmente le pecore. Per ben quattro volte Giovanni utilizza il verbo conoscere. Esso indica “fare esperienza”, “entrare in rapporto personale con qualcuno”. La qualità di questa relazione fra il pastore e le pecore è analoga alla relazione personale profonda esistente tra Gesù e il Padre. Non si tratta di una conoscenza di carattere psicologico o di conoscenza intellettiva. Si tratta di comunione.
È questione di natura: come egli conosce il Padre. È questione pasquale: per la morte del pastore grande delle pecore, siamo stabiliti in un rapporto di figliolanza (cfr. la seconda lettura 1 Gv 3, 1 -2). È questione di amore, frutto dell’amore del Padre, testimoniato nell’offerta dal Cristo, perfezionato dallo Spirito.
Il terzo passaggio della pericope di questa 4ª domenica di pasqua è dato dalla comparsa di altre pecore, che non sono dell’ovile di Israele. Senza scendere troppo nel particolare, collocato il discorso di Gesù negli ambienti del tempio di Gerusalemme, Giovanni ci riporta una rivelazione che costantemente verifica l’identità dinamica della chiesa: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore (v.16). Ci sono altre genti e umanità varia che attende liberazione, conforto e dignità. Conosciute e amate da Cristo, da lui sono condotte. Anche con quelle che non appartengono al recinto, Gesù stabilisce una comunione personale, una conoscenza intima. Non deve condurle a noi, ma insieme alle altre pecore condurci.