Dopo gli episodi della “giornata inaugurale del ministero di Gesù a Cafarnao”, il vangelo di Marco segnala un cambiamento di strategia da parte del Maestro. Egli diventa itinerante: «Andiamocene altrove, per i villaggi vicini; per questo infatti io sono venuto» (1,38). Sceglie Gesù di essere un rabbì itinerante per i villaggi della Galilea, di non avere fissa dimora. Dentro il cammino di Gesù, Marco riporta un ulteriore movimento, assolutamente insolito per quell’epoca, sconvolgente per ogni tempo, compreso il nostro: quello tra Gesù ed il lebbroso. Leggiamo questo episodio in questa 6ª domenica, dal vangelo di Marco 1, versetti dal 40 al 45.
L’assoluto isolamento caratterizzava le persone che erano colpite da questa malattia, viene smentito come detto dal movimento, un duplice vicendevole orientamento fisico e spirituale: il lebbroso che supplicante in ginocchio dice a Gesù: «se vuoi, puoi purificarmi»; Gesù che, compassionevole risponde: «lo voglio, sii purificato».
La lebbra era detta “primogenita della morte” (Giobbe 18,13). Distruggendo l’integrità e la vitalità fisica, relegava la persona in una condizione immonda. Era l’essere impuro per eccellenza. A lui dall’aspetto esteriore che doveva assumere (vesti, richiami sonori e grida per avvisare della sua presenza), sino alla costrizione fuori dalla citta era preclusa ogni dimensione di vita religiosa e sociale. Abbandonato al suo destino di morte, emarginato, segregato, impossibilitato a stringere qualunque tipo di legame con i sani.
Nel fosco quadro di riferimento appena tratteggiato – ma sempre parziale rispetto alla realtà della condizione – sconvolge la integrale reazione di prossimità da parte di Gesù. Marco sottolinea un’istintiva partecipazione di Gesù, simile allo smuoversi delle viscere materne verso un figlio: «ne ebbe compassione». È lo stesso verbo che si utilizza per la commozione del padre misericordioso del figlio prodigo, della vedova di Nain che aveva perso il figlio unico. È la sua tenerezza che lo porta a non trattenersi. Il lebbroso suppone in Gesù una sovrana potestà di liberazione dalla lebbra, come quella che altri uomini – Mosè, i profeti – avevano ricevuto da Dio. Egli ardisce, con piena fiducia, ed umile preghiera di adorazione. Per Marco sembra che Gesù abbia compiuto questa guarigione istantaneamente, trasportato da un impeto irrefrenabile: «stese la mano e lo toccò».
I verbi dicono che Gesù sbuffa, ammonisce, caccia via. Ci sta tutta la pietà della compassione, quasi una impossibilità a frenarsi dalla guarigione. Potrebbe starci anche l’ira per la condizione di “cadavere ambulante” che colpiva il lebbroso. Addirittura, per qualcuno degli esegeti, sembra che l’intimazione a mantenere questo segreto e di mostrarsi ai soli sacerdoti avesse molteplici finalità. La prima: erano questi che attestavano l’avvenuta guarigione e riammettevano al culto e alla vita sociale. Il lebbroso avrebbe dato testimonianza ai sacerdoti, ma anche contro loro, se – come avverrà nel capitolo successivo – non accogliessero la presenza dello spirito profetico in Gesù.
Gesù, che conosce ciò che c’è nel cuore di ogni uomo, sa il rischio che la propaganda e la popolarità di guarigioni e miracoli apportano alla relazione con lui. L’accreditamento della persona e dell’opera di Gesù ha finalità che deve sempre sottrarsi dal facile bersaglio del miracolo e della guarigione. Questa come un dito puntato, non attira l’attenzione su di se, ma sulla vicinanza del regno, che sempre sarà questione di compassione, cura, mano che solleva, tocca, conduce, libera. E porta al di là.