Il Maestro non ripete e suscita domande – IV Domenica del Tempo Ordinario

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Il vangelo di Marco, dopo la chiamata dei primi discepoli, presenta una ‘giornata tipo’ di Gesù, primo pannello di una settimana programmatica.

Nella Galilea, a Cafarnao, cittadina di elezione del suo ministero di evangelizzazione del regno, Gesù insegna, esorcizza, guarisce. Le prime parole e i primi gesti cominciano a suscitare domande e interrogativi e, allo stesso tempo, a rivelare il suo mistero. Accorrono le folle, ma Gesù si raccoglie da solo in preghiera. Destinatari della sua missione ogni ambiente, ogni attività, ogni genere di persone: la sinagoga, luogo dell’assemblea della fede ma anche la casa familiare di Pietro; la porta della città, spazio pubblico per eccellenza come l’agorà per i greci; una zona deserta, infine, dove sosta in preghiera. Persone comuni e marginali, ossessi, malati.

Già al primo giorno, appare con chiarezza, il vangelo del regno raggiunge l’uomo in ogni condizione esistenziale. Leggiamo Marco 1,21-28. La parola chiave del brano è il verbo “insegnare”, nella forma verbale dell’imperfetto, “insegnava”. In realtà Marco riporta ben pochi “contenuti” dell’insegnamento del Maestro. È Gesù stesso il “messaggio”, la sua corporeità espressiva in relazioni e azioni, parole e attenzioni, è il contenuto: semplice, profondo, perenne. Il Maestro non ripete, come gli scribi, quanto già attestato da altri scribi prima di lui. Né, sulla base della ‘tradizione consolidata dei padri’, interpreta la stessa dottrina: Gesù insegna con autorità, non come gli scribi. Egli è certamente un rabbì, ma non come altri rabbì. La sua autorità risulta originaria, originale.

Nel giorno di sabato, quando i Giudei si riuniscono nella Sinagoga per ascoltare la Legge e i Profeti, esortandosi a vicenda, e pregare il Signore Dio d’Israele, anche Gesù va ed insegna. Non ci è detto il contenuto. Un uomo posseduto da uno spirito immondo, reagisce alla predicazione di Gesù. Senza escludere l’influenza e la possessione diabolica, come per altre manifestazioni attribuite al maligno in altre parte dei vangeli, potrebbe trattarsi di malattia psichica. Come i profeti, Gesù accompagna la predicazione con un gesto, un ‘commento in azione’. Più volte sentiremo che Gesù guarisce, cura, e che manda i suoi a curare i malati. Altre volte Gesù libera e manda i discepoli a liberare gli indemoniati, scacciare i demoni. Partecipe di Cristo la Chiesa è una comunità terapeutica, un ospedale da campo, dice papa Francesco. Come Gesù fece ed insegnò, così occorre che ci prendiamo cura di ogni malattia e scacciamo ogni forma di oppressione e di possessione demoniaca. Così, la Chiesa partecipa della dichiarazione di Gesù: “se io scaccio il demone vuol dire che è venuto in mezzo a voi il regno… guarite i malati che trovate e guarite i malati dicendo: Il regno di Dio è vicino!”.

L’indemoniato – disagiato, deviato, corrotto, comunque povero malcapitato – è destinatario della misericordia di Dio. Frammentato in sé e vittima di molteplici oppressioni, non ha in sé altra misura che il suo disagio-perdizione, attestazione per lui certa dell’assenza di Dio dal mondo: «che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». Intimando «taci, esci da lui», Gesù riduce al silenzio le voci caotiche che opprimevano l’indemoniato. Grida lo spirito impuro alle parole di Gesù, e strazia il posseduto.

Presi da timore di Dio e di rispetto per ogni uomo in pena, ci chiediamo: quale predicazione del vangelo del regno poniamo come Chiesa per la cura dei malati, la liberazione dai demoni della violenza, della menzogna (tanta informazione non è sinonimo di verità), del possesso, della difficoltà a condividere, dell’illegalità? Senza questa parola in azione si realizzeranno liberazioni come parabole del regno di Dio?

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