Caro diario,
il “Trattato sulla tolleranza” di Voltaire (1763) è considerato un testo fondamentale sulla libertà di credo e opinioni e su molte delle carature con cui definiamo una società come “civile”.
Nella Francia di allora (ma, per vari aspetti, sembra pure l’Italia di oggi) erano presenti sanguinosi contrasti ideologico-religiosi; e pregiudizi, campagne d’odio, razzismi, delazioni, persecuzioni, incriminazioni sommarie e torture erano usuali abomini. In tale contesto Voltaire si schierò e scrisse contro quella che definì “superstizione”, misto di fanatismo e irrazionalità spalmati in “par condicio”; e in questo saggio sostiene che ogni uomo di buona volontà è chiamato a lottare per la “religione naturale” deista, governata da un Dio aconfessionale, senza dogmi, tollerante, che rende inutili i riti, punisce i malvagi e remunera i buoni come un giusto giudice.
Questa sua fede nei principi della morale naturale mira ad unire gli uomini al di là delle differenze di etnie, costumi ed usanze; e sebbene, a causa di posizioni riportate in altre opere, anche lo stesso scrittore sia stato e sia considerato razzista e intollerante (gli africani inferiori, e quindi ridotti “per natura” in schiavitù, gli asperrimi giudizi contro Ebrei, Cristiani e Musulmani, o gli attacchi ad “alzo zero” contro l’enorme potere temporale della Chiesa di quell’epoca) nel “Trattato” c’è, comunque, un vero e proprio stendardo del pensiero interconfessionale o laico: quella “Preghiera a Dio” che, ritengo, oggi possiamo anche far nostra. Eccola.
“Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo; ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell’immensità e impercettibili al resto dell’universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura. Fa’ sì che questi errori non generino la nostra sventura. Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l’un l’altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa’ che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa’ sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati ‘uomini’ non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione. Fa’ in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo. Fa’ che coloro (…) che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo, e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano ‘grandezza’ e ‘ricchezza’, e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c’è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell’attività pacifica! Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse (…) la tua bontà che ci ha donato questo istante”.
Poco su cui dissentire ma molto per chiedere a tutti, e specialmente a Lui, un mondo migliore dopo questa pre-Apocalisse, caro diario.