Il testo di Giovanni 15,1-8 che leggiamo nella liturgia della parola della V domenica di Pasqua, ci fa collocare in quella parte del vangelo contrassegnata dai cosiddetti “discorsi di addio”. Nei capitoli dal 13 al 17 oscillando fra l’allegoria e la parabola, riecheggiando un consolidato e vario genere letterario giudaico chiamato mashal, Gesù presenta se stesso nel suo rapporto con il Padre e con il popolo fedele come vite, agricoltore, tralci.
Come per il brano del pastore bello letto la scorsa domenica, anche per il tema della vite è profondamente attestato il radicamento nella cultura biblica – giudaica e dell’antico oriente. C’è il famoso “canto della vigna” nel libro del profesta Isaia, al capitolo 5. Insieme al testo di Isaia, con il Cantico dei Cantici è possibile cogliere la chiara immagine sponsale connessa alla vite/vigna. Così il salmo 128: “La tua sposa come vite feconda, nell’intimità della tua casa”. Si sottolinea la fecondità, il suo dare frutto. Anche questa finalizzazione del rapporto fra Dio e il popolo, per mezzo di Gesù e dello Spirito, è oltremodo esplicita in Giovanni. Ancora un altro passaggio.
Con questo capitolo giovanneo siamo alla conclusione di una filiera di autorivelazioni. Più volte è tornata l’espressione Io sono. La formula, è variamente attestata in ragione del suo predicato ed offre, da diverse angolature come in un poliedro, una complementare prospettiva del Verbo incarnato e della sua opera. Egli è il pane (Gv 6,35), la luce dle mondo (8,12). Oltre ad esse porta, è pure pastore (Gv 10,7.9.10). Al ritorno in vita di Lazzaro, Egli è la risurrezione e la vita (11,25). In 14,6 Gesù è la via, la verità e la vita. Si tratta, con queste autorivelazioni, di una cristologia che contempera una mutua relazionalità tra il soggetto e il predicato: all’uomo affamato, disperso, assettato, ottenebrato, infelice e senza vita, Egli si rivela come pane, pastore, acqua, luce, gioia e vita. Il caratteristico tema giovanneo del “rimanere”, trova in questa pagina, la sua più efficace esplicitazione.
Già dal primo capitolo del suo vangelo Giovanni aveva fatto del passaggio “vedere-rimanere-dimorare” un caposaldo della sua narrazione cristologica. Già nella testimonianza del Battista si affermava che colui sul quale vedrai “scendere e rimanere” lo Spirito, questi è colui che battezza in Spirito Santo (Gv 1,33).
Il verbo “rimanere” s’incontra 118 volte nel Nuovo Testamento. Ben 67 nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni. In 43 di questi 67 casi, il senso dato al verbo è “rimanere in”. Il rimanere, come il guardare e il vedere, in Giovanni descrive la dinamica della fede dei discepoli. Il rimanere giovanneo, pur negli aspetti più interiori, ha origine ed è sempre in rapporto col manifestarsi storico e visibile di Gesù, il Verbo fatto carne. Da un rimanere presso di Lui a un rimanere in Lui; Egli dice che possiamo venire a Lui perché il Padre che lo ha mandato ci attira a Lui (Gv 6,44; cfr. 12,32).
In Giovanni 15,1-8, per sette volte ritorna il verbo “rimanere”: “Se rimanete”, “se non rimanete”, “chi rimane”, “chi non rimane”… e così via, sette volte. “Rimanere” per Gv dice intimità. «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Quelli che rimangono presso di Lui e in Lui, sono liberi e liberi per davvero. È la sollecitazione alla libertà a rimanere, a starci a quell’incontro. L’antitesi al rimanere è “senza di me”. Rimanere in lui è sinonimo di “portare frutto. Non rimanere in lui è “non potere fare nulla”.
Rimanere in Gesù è vivere questa convivenza, con lo stupore iniziale che ci da di riiniziare in ogni successivo riaccostamento a Gesù, perché si approfondisca in noi la sua impressione originale.