Caro diario,
alzi la mano chi, nel tormentato e assordante logorio della contemporaneità, non abbia desiderato, almeno una volta, di andare a fare l’eremita o, più spesso, almeno di rifugiarsi in un convento, al fine di cambiare radicalmente modo d’esistere, per un’alternativa comunitaria da assumere come autentico farmaco salvavita.
Tutti, quindi, sappiamo chi siano i monaci, e magari ne conosciamo e / o, a volte, ne frequentiamo alcuni. Ma eccoti qui la domanda da un milione, quella che, forse, noi non ci siamo posti mai: chi fu il primo monaco? A legittima curiosità ora sollevata, ecco, in sintesi, caro diario, la risposta esatta, per te e per gli amici lettori. All’epoca in cui i Padri nella Fede offrivano la loro vita al Signore nel silenzio e nella solitudine del deserto, fu l’egiziano Pacomio, nel IV secolo, a pensare ed attuare una nuova forma di vita cristiana, quel Monachesimo comunitario che, successivamente, avrebbe influenzato tutta l’evoluzione della vita religiosa nel mondo.
Pacomio, nato verso il 292 in un villaggio presso Kénèh, in Alto Egitto, s’era arruolato nell’esercito romano, ma se ne congedò quasi subito, ripudiando quel tipo di vita inquadrato, violento ed anche dominato da deità altrettanto impietose e crudeli cui non credeva, specialmente per un “qualcosa” che già, “dentro”, lo stava portando dritto all’unica Verità. E infatti, trasferitosi a Tebe, ospite di una famiglia di cristiani, si convertì e ricevette il Battesimo. Nel 317 decise di andare da Palamone, uno dei primi eremiti del deserto, che gli insegnò ad ascoltare il silenzio e a parlare con Dio; e poi raggiunse Antonio il Grande (251-356), rinomato per i consigli e gli insegnamenti, ed iniziò la sua vita di eremita, diventando, a sua volta, una guida per i suoi molti visitatori. Tuttavia, quasi subito Pacomio desiderò condividere il silenzio e la preghiera con altri fratelli e fondò, assieme a tre di loro, la sua prima comunità, su una delle rive del Nilo, nell’Alto Egitto: il primo Monastero cristiano, a Tabennisi, dove una voce gli disse: “È qui che devi realizzare il tuo sogno”. In questo villaggio (336-337) prese vita la Casa madre del cenobitismo (dal greco “koinòs bìos”, “vita comune”): vari edifici e una cappella, circondati da un muro di cinta, sul modello delle comunità rurali e di quegli accampamenti militari romani che, da soldato, aveva ben conosciuto. Il monastero divenne una cittadella di virtù in pieno deserto. Niente della vita comune era lasciato al caso: si abitava e si mangiava insieme sotto lo stesso tetto, si esercitavano diversi lavori (tagliatore, conciatore, scriba, agricoltore…), stesso abito monastico per tutti (tunica senza maniche, un cappuccio, una cappa sulle spalle e una cintura) e si osservava alla lettera un “ordine del giorno” comune per organizzare al meglio la vita monastica, raccolta da Pacomio nella prima “Regola” di 194 articoli in copto e poi tradotti in greco, in siriaco, in latino (da san Girolamo, sessant’anni dopo la morte di Pacomio) e che arriva, quindi, in Occidente ispirando pure la più nota “Regola” benedettina. Molto presto furono moltissimi i fratelli che si unirono a Pacomio nei nove monasteri da lui fondati in Palestina, a Cipro, in Siria e in Asia Minore tra il 340 e il 350, e che, alla sua morte (348) arrivarono, come riferito, a circa tremila.
In quello stesso periodo la sorella di Pacomio, Maria, fondò, pure nell’Alto Egitto ma sulla riva opposta del Nilo, il ramo femminile della Casa madre, sempre sotto l’autorità del medesimo Superiore e con le stesse regole. Attorno al 400, il monaco Giovanni Cassiano creò, infine, un ponte tra il monachesimo orientale e quello occidentale, che vide in Gallia e poi in Italia i primi focolari monastici ispirati a tale nuova forma di vita cristiana destinata a diventare, nel tempo e in tutto il mondo, una realtà sempre più gigantesca e capillare.
E tutto ciò grazie a Pacomio, a un solo uomo, un uomo di Dio divenuto, però, addirittura il primo di tutti i monaci: pensa un po’ che Grande, caro diario.
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