“Donne di mafia” oggi

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Ospitiamo,  questa settimana, il contributo del dott. Salvatore Cardinale, già Presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, su un tema di attualità, anche alla luce delle operazioni che le forze dell’Ordine hanno portato a termine non solo nella nostra provincia ma anche sul territorio siciliano. 

Varie operazioni di polizia portate a termine contro le cosche isolane (tra le ultime l’ ”Operazione Xydi” riguardante la nostra provincia) mettono in evidenza, sulla base di quanto emerso dalle indagini e di elementi di conoscenza derivanti da giudicati definitivi, la mutazione in negativo della figura, già di per se stessa discutibile, della “donna di mafia”.

E’ un dato di fatto, suffragato dai giudizi degli esperti, che per molto tempo nell’universo mafioso alla donna era riservato un ruolo marginale rispetto alla gestione delle “famiglie” e alle attività criminali poste in essere dagli “uomini d’onore”.  Tradizionalmente, la struttura societaria della cosca era rigorosamente “maschile” e non prevedeva che tra i suoi componenti vi fossero affiliati di sesso femminile. La “femmina”, quindi, non partecipava alle riunioni tra gli associati, in nessun caso aveva voce nelle decisioni che il gruppo di riferimento assumeva, non aveva alcun ruolo nella fase preparatoria e/o esecutiva dei delitti consumati dall’organizzazione, non si ingeriva  nelle iniziative del suo uomo e, in caso di cattività di costui, non ne assicurava la prosecuzione, limitandosi a ricevere il sostegno economico solitamente fornito dall’associazione alle famiglie dei detenuti.

Il ruolo della donna era, dal punto di vista della dinamica criminale, inesistente ovvero sostanzialmente trascurabile. Unico vantaggio era la regola non scritta, peraltro non sempre osservata, secondo la quale donne e bambini, anche se congiunti di mafiosi, non dovevano essere toccati. In pratica, nell’ambito mafioso alla donna erano attribuiti dei compiti specifici che costituivano il recinto dentro il quale le era consentito muoversi.

La “femmina” doveva accudire alla casa, essere moglie fedele (la sua infedeltà veniva punita con la morte), a maggior ragione se il compagno si trovava in stato di detenzione, allevare la prole nel rispetto del genitore e dei valori omertosi che costui esprimeva, conservare i segreti su quanto accidentalmente percepito o venuto a sua conoscenza, vestire per sempre il lutto in caso di decesso, spesso per causa violenta, del coniuge o degli altri stretti congiunti.

Accanto a  tali compiti, alla donna di mafia era anche attribuito il ruolo di vestale del culto dell’etica mafiosa i cui principi dovevano essere trasmessi ai figli, specie a quelli di sesso maschile, rendendo ques’ultimi omologhi, nella condivisione delle scelte criminali, ai loro padri  e, se forniti di adeguata “capacità”,  loro “degni” eredi.

In sintesi, alla donna del mafioso erano riservate mansioni che, confinate nell’ambito della gestione della famiglia, di fatto la tenevano ai margini della vita dell’associazione e delle vicende criminali dei suoi affiliati. L’assenza di una visibilità esterna non significava, però, che il ruolo assegnato alle donna di mafia fosse del tutto irrilevante. Al contrario, come è stato sagacemente sottolineato, “la sua (della donna n.d.r.) presenza è fondamentale per il mantenimento dell’organizzazione mafiosa grazie alla sua capacità riproduttiva ed educativa” (E.Pucia. Madri d’onore: il ruolo della donna all’interno della famiglia criminale mafiosa”).

Le cronache giornalistiche di alcuni anni fa e i servizi fotografici di accompagnamento hanno per molto tempo documentato la funzione ancillare delle donne dei mafiosi che, anche nel dolore per le morti spesso violente di mariti, figli e altri parenti, non venivano mai meno alla posizione di secondo piano loro assegnato, trincerandosi, nei tristi abiti rigorosamente neri, in un muto dolore e in un’accettata rassegnazione, salvo assumere l’onere di inculcare negli orfani lo spirito di vendetta.

A parziale giustificazione di una simile filosofia di vita va riconosciuto che la donna di mafia negli anni passati era priva di scolarizzazione, spesso non si sposava per amore ma per decisione del genitore il quale le imponeva “l’uomo di rispetto” che l’avrebbe impalmata, era estranea a movimenti o circoli nei quali si predicavano virtù civiche, non conduceva vita sociale.Essa, il più delle volte, era condizionata dalle sue origini familiari nei quali l’ubbidienza al maschio, fosse il padre, il marito o altri congiunti, era un valore inculcato o subito. In alcuni casi, respirava, fin dai primi giorni di vita, aria impregnata di mafiosità, essendo figlia o sorella o nipote di mafioso.

La tradizionale figura della donna di mafia, riservata, muta, dolente e avvolta nel suo scialle nero, ha resistito per molti anni nei quali era il maschio a gestire gli affari della famiglia, a tenere i collegamenti con gli associati e a governare le attività commerciali,  ma oggi essa può dirsi notevolmente mutata a causa di vari fattori, personali e di costume, che sempre più spesso fanno la donna del mafioso protagonista e partecipe di attività delittuose riconducibili al crimine organizzato. In modo palese è avvenuto “ un grande cambiamento di rotta nel costume mafioso, un cambiamento che riguarda sopratutto il rapporto tra “cosa nostra” e la donna”(L. Madeo, Donne di mafia, Vittime Complici e protagoniste).

In verità, l’affermata scolarizzazione di vasta fascia della popolazione, l’evoluzione dei costumi e l’affermarsi di una più consapevole coscienza civica avevano legittimato la speranza che anche l’universo femminile mafioso fosse coinvolto in quella generale palingenesi che, dopo la stagione delle stragi, ha interessato una consistente parte della società siciliana generando un concreto atteggiamento di avversione verso la mafia e i valori negativi che essa esprime.

Purtroppo, ciò non è accaduto per quanto riguarda la donna di mafia giacché l’auspicato mutamento, registrato negli ultimi tempi, si è risolto non nella sperata evoluzione etica e culturale che conduce al rigetto dei codici mafiosi ma nell’emergere di un ruolo nuovo e dinamico che la donna di mafia ha assunto nella vita della cosca e nella partecipazione alle attività e ai progetti che essa gestisce e persegue. Fanno eccezione a questa evoluzione negativa le sporadiche collaborazioni con la giustizia che pur ci sono state da parte di alcune donne di mafia le quali, con coraggio e ammirabile determinazione, hanno abiurato al loro passato offrendo allo Stato preziose informazioni ai fini della lotta al crimine organizzato (ricordiamo per tutti Rita Atria e Piera Aiello) ma il numero ridotto di casi registrati non può essere ritenuto sufficiente a smentire la triste e diversa realtà dei fatti.

La nuova mafia, decimata dagli arresti degli affiliati di sesso maschile, può oggi  contare, come novità ormai non occasionale, sulle donne dei consociati. Sono mogli, compagne, figlie che si sostituiscono ai loro uomini ristretti nelle galere e, in tale veste, amministrano il denaro del clan, scelgono le famiglie dei detenuti rimasti fedeli cui erogare il sussidio, si intestano quote societarie, gestiscono interi settori di attività commerciali nelle quali sono stati reimpiegati i proventi illeciti.

In altri termini, esse si sono trasformate da vestali silenziose del focolare domestico o, al più, da conniventi, in protagoniste degli affari illeciti e rappresentanti adeguate e riconosciute dei mafiosi reclusi, dei quali seguono le indicazioni, ne proseguono i traffici e, non raramente, ne prendono il posto ai vertici delle cosche.

Tale nuovo protagonismo consente ai capibastone detenuti, specie quelli più pericolosi sottoposti al regime del c.d. “carcere duro”, di mantenere, utilizzando le loro fidatissime donne, i contatti con il territorio, di trasmettere all’esterno ordini e messaggi dei quali le donne sono divenute ambasciatrici, di scambiarsi messaggi con altri detenuti anch’essi in isolamento, di ricevere strumenti elettronici vietati: in altre parole, di conservare e gestire, in barba alle leggi, il potere di cui godevano prima della detenzione in carcere.

Secondo recenti indagini della Direzione Distrettuali Antimafia di Palermo, alcune donne di mafia hanno assunto nei clan di competenza le vesti di esattori per conto dei parenti affiliati detenuti. Ad altre donne sono state devolute la cura e la gestione di settori di attività criminali quali l’usura e il traffico minuto degli stupefacenti, una volta appannaggio esclusivo dei soli maschi… Ad alcune è stato contestato dalla magistratura palermitana, anche con sentenze passate in giudicato, l’esercizio, durante la latitanza o l’arresto dei congiunti, di poteri direttivi e decisionali nelle cosche di riferimento, esercitati con mano ferma e sicura professionalità, espressione di una capacità criminale e di un’idoneità al comando che, a volta, superano quelle dei sostituiti… Analoghi risultati sono stati raggiunti con indagini riguardanti un’organizzazione mafiosa del Trapanese e  nella Sicilia centro-orientale sono stati scoperti casi di donne di mafia attivamente operanti sul territorio… Altre donne, meno intraprendenti, non hanno più remore a manifestare, abbandonando la ritrosia di una volta, la condivisioni dei “modelli” mafiosi esaltando le gesta dei loro uomini e facendosene vanto. Più recentemente, con particolare riferimento alla nostra provincia (v.Operazione Xydi), è emersa una nuova figura di donna mafiosa che si allontana e si distingue da quella fin qui delineata, portatrice per tradizione familiare di un D.N.A. mafioso e destinata, tranne qualche ammirabile eccezione, a comportarsi da mafiosa. È la nuova figura della donna che, cresciuta in ambiente apparentemente lontano dal mondo criminale, acculturata e ben inserita nell’ambiente sociale e lavorativa, decide, sotto la spinta di personali motivazioni, di “convertirsi” e di piegare la sua professionalità e gli spazi che derivavano dalla professione svolta, a beneficio delle cosche delle quali diventa “intranea” o concorrente esterna.

La conclusione di una siffatta rassegna non deve essere l’amara rassegnazione di fronte ad un fenomeno che sembra aver reso vani gli sforzi che negli ultimi decenni sono stati compiuti per sradicare la mala pianta della mafia  ma deve costituire la spinta alla ricerca vincente di nuovi modelli di relazioni sociali che consentano anche alle donne dei mafiosi di uscire da una prigionia di degrado e di rigenerarsi mediante  l’ inserimento in contesti sociali ove dominino i principi di legalità e giustizia.

                                        Salvatore Cardinale