Non mi era mai successo di piangere durante uno spettacolo teatrale. Non mi era mai successo, al termine di una rappresentazione, di recarmi dietro le quinte per incontrare gli attori e sentire forte il bisogno di mettere da parte microfono e telecamera e stringere forte le mani dei protagonisti e ringraziarli dal profondo del cuore, per quanto messo in scena. È successo, invece, giovedì 23 gennaio 2020, al termine dello Spettacolo “Pesce d’Aprile”, con Cesare Bocci – conosciuto al grande pubblico per la parte nel Commissario Montalbano – accanto a Luca Zingaretti, e Tiziana Foschi “ il racconto – come si legge nella brochure consegnata in sala – di un grande amore che la malattia ha reso ancora più grande: un’esperienza reale, toccante, intima e straordinaria di un uomo e di una donna che non si danno per vinti quando il destino sconvolge la loro esistenza”. Uno spettacolo nel quale, fatte le dovute distinzioni, ho rivisitato e rivissuto fatti ed eventi degli ultimi 4 anni della mia vita. Giovedì ho assistito, non solo ad uno spettacolo teatrale, ma ad una bella storia d’amore, ad una testimonianza in grado di toccare le corde del cuore e ridare forza a chi, nella propria esistenza, vive o ha vissuto l’esperienza del limite segnato da un evento doloroso improvviso. Una storia in cui – tengono a sottolineare gli autori/interpreti, Daniela Spada, Cesare Bocci e Tiziana Foschi – “è tutto vero”.Cesare e Daniela che hanno deciso di condividere con il pubblico la loro vicenda privata, prima, attraverso un testo autobiografico, “Pesce d’Aprile”, portato, successivamente, in scena con Cesare Bocci, che interpreta se stesso e l’amica, Tiziana Foschi che, come un “cireneo dell’arte teatrale” da voce e corpo alla “via crucis di Daniela che insieme al marito hanno deciso di condividere il loro calvario con un intendo espressamente enunciato al termine dello spettacolo: offrire la propria vicenda come pungolo per chiunque si trovi in un momento di sofferenza che per loro è segnato da una data precisa: quel “pesce d’aprile” del 2000, giorno in cui Daniela, a una settimana dal parto della figlia Mia, venne colpita da un ictus a cui seguono i giorni di coma e poi il buio totale della gravidanza, l’immobilità fisica e il lungo tempo della riabilitazione. I due non si sono arresi, il desiderio di vivere ha prevalso sulla rassegnazione. Lo spettacolo mostra il duro e deciso percorso di rinascita. Da quel primo aprile del 2000 sono passati anni e anni, per ritessere e riappropriarsi di spazi di autonomia sottratti, a denti stretti, in una lotta quotidiana, alla malattia e alla rassegnazione. Lo spettacolo fa emergere, inoltre, i tanti limiti del sistema sanitario, ma anche le tante barriere non solo architettoniche, ma principalmente culturali, le più difficili da abbattere, che segnano la vita di una persona disabile. Il testo e la riduzione teatrale, è pervaso da un’ironia, che suscita nello spettatore un riso carico di lacrime, un mix ideale per mettere alla porta ogni forma di pietismo. “Daniela non è una che si piange addosso – dice Cesare Bocci – lei è stata prima incosciente e poi testarda. E questo l’ha salvata”. Due i messaggi lanciati al pubblico che ha gremito il Teatro Pirandello:la fiducia in se stessi e non avere paura di chiedere aiuto. Esplicito anche il messaggio al mondo sanitario: più attenzione, non solo alle cure e ai rigidi protocolli, ma, soprattutto, alla persona e alla storia di ogni ammalato.
Tante poi le domande con cui, al termine, si esce dal Teatro: “cosa dire davanti al dolore di una vita che non è più quella di prima perché una malattia l’ha radicalmente cambiata? Cosa dire davanti a ore, giorni, settimane, mesi, e anni di sofferenza? Cosa dire o fare? davanti ad un corpo, che può essere anche il tuo o quello di una persona cara che non è più in grado di reagire, mentre la sua mente vorrebbe volare sopra le nuvole, viaggiare e attraversare mari e valli, perché, al di la “scalini”, barriere e limiti, è viva come non mai? Ma soprattutto cosa posso dire o fare io spettatore? Come decodificare i silenzi e le lacrime della persona che posso avere di fronte o accanto? Cosa dire o come reagire davanti ad una Sanità aziendalizzata incapace, spesso, ma non sempre, di personalizzare le terapie e i percorsi di fuoriuscita dalla malattia, sui bisogni e i desideri della persona sofferente? Può la malattia e la sofferenza, come per i protagonisti di “Pesce d’aprile”, diventare una straordinaria occasione d’amore per ciascuno di noi? E se si, come trasformarla in un’occasione che aiuta il malato ma anche chi, tra mille difficoltà lo assiste e condivide il suo percorso di sofferenza?