Covid-19, la vita di un immunodepresso ai tempi del Coronavirus

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In questi giorni in cui la nostra libertà è limitata forse dovremmo ricordare che, se restiamo a casa, lo facciamo anche per non far rischiare la vita alle persone prive o con limitato sistema immunitario. Una di loro ci ha raccontato come è la sua vita al tempo del Covid-19.

«Sono un’immunodepressa. O meglio, mi trovo in una condizione molto vicina all’immunodepressione. Da tempo fronteggio una patologia che, grazie a Dio e alla medicina, oggi può essere messa in condizioni di non uccidere.

In verità, da una dozzina d’anni a questa parte la mia salute non è più la stessa. Sono improvvisamente passata da una condizione di grande energia e dinamismo, in cui sembrava che nulla potesse fermarmi, a un’altra di fragilità e di sofferenza cronica. Non so cosa sia successo: è stato un susseguirsi di problemi sanitari più o meno importanti, culminati in una neoplasia che, fino ad oggi, sono riuscita a “tenere all’angolo”, conducendo una vita più o meno normale. Finora mi hanno aiutata la fede, una buona forza mentale e, naturalmente, una scienza in continua evoluzione. Se fossi vissuta in un’epoca diversa avrei avuto vita breve; invece eccomi qui.

Oggi seguo una terapia introdotta in tempi piuttosto recenti, che si sta rivelando efficacissima. Gli effetti collaterali sono minimi e più che tollerabili, e riesco tranquillamente a lavorare, a condurre una vita sociale attiva, persino a dedicarmi all’associazionismo e al volontariato. C’è solo un effetto della cura al quale devo prestare attenzione: una certa riduzione delle mie difese immunitarie. Queste ultime rientrano nei parametri di normalità, ma sono attestate su valori minimi: rischio quindi, più facilmente rispetto ad altre persone, di contrarre malattie infettive e di sviluppare le relative complicanze. E, ciliegina sulla torta, non posso nemmeno vaccinarmi.

Finora sono riuscita a districarmi molto bene in questa situazione. E’ bastata un po’ di sana prudenza: non frequentare luoghi affollati nel periodo di picco dell’influenza stagionale, non esagerare con baci e abbracci, mantenermi lontane da persone con sintomi di raffreddore o di altre infezioni. Un po’ fastidioso, certo, ma tutto sommato fattibile.

Dallo scorso mese tutto è cambiato: colpa di questo virus subdolo e ancora in parte sconosciuto, e per la prima volta ci sono momenti in cui ho paura. Ho paura, sì, perché la mia salute e la mia sicurezza non dipendono soltanto da me e dai miei familiari. Non si tratta di un’influenza, ma di qualcosa che si propaga in maniera più virulenta e tenace. Nonostante da tempo – ben prima del recente decreto emanato dal Governo – la mia famiglia abbia adottato precauzioni stringenti, sappiamo perfettamente che qualcosa può sfuggire al nostro controllo. Basta che mio marito o mio figlio tocchino una superficie infetta e, per fretta o distrazione, si passino una mano sugli occhi avvertendo fastidio o stanchezza. Potrebbero, così facendo, restare contagiati e, pur non manifestando sintomi (capita!) contagiare me. E condannarmi senza nemmeno uno starnuto o un colpo di tosse.

È terribile, tragico direi. Per questo non riesco a giustificare chi, in barba ai divieti, magari provenendo da zone già coinvolte dal virus, mostra spavalderia e va in giro rischiando di contaminare ambienti e superfici. Così come trovo immorale affermare che non c’è da temere più di tanto, perché veramente a rischio sono solo gli anziani e gli immunodepressi. Avete idea di quanto io – e come me tutti – possa ancora dare alla mia famiglia e al mondo?

La paura, però, non mi accompagna sempre. Non ho una medicina contro il coronavirus, ma ne ho molte contro i pensieri negativi: la fede; la preghiera; gli affetti; i miei cani; il lavoro, anche da casa; gli amici, che sento per telefono; le letture; gli audiolibri; i film… vi pare poco?».

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