“Tutto (l’azione della magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni…) concorre al bene del corpo sociale“. Con questa considerazione finale mons. Alessandro Damiano, arcivescovo coadiutore di Agrigento, ha chiuso le “Giornate di Studi Sociali” del 23 e 24 marzo 2021″, che l’Arcidiocesi, con l’Ufficio di Pastorale sociale, ha proposto come contributo di riflessione in preparazione alla beatificazione del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino sul tema: “La mafia nel territorio agrigentino e la risposta della società civile ed ecclesiale”. “La mafia – ha detto don Alessandro – , da un punto di vista teologico, in quanto struttura di male è uno scimmiottamento diabolico di Dio. Essa a suo modo è creativa e vuole come il diavolo una venerazione silenziosa e una adesione del cuore. Ambisce – ha proseguito – ad essere un pensiero, un atteggiamento, uno stile, prima che è un’azione illecita. Allora – ha proseguito – solo l’azione silenziosa del bene la infastidisce, perché intacca alla radice le sue strutture. La mafia – ha continuato – non ha tanto paura delle ‘manifestazioni’ e delle ‘giornate’, Che pure, ha affermato, vanno fatte e celebrate in modo visibile. Però non è di questo che ha paura la mafia, perché queste rischiano di essere una pausa, mentre la mafia, come il diavolo, non fa pause, lavora sempre. Essa, come il diavolo, ha piacere di sentir parlare di cosa ha fatto; ciò diventa quasi un vanto, una sorta di azione pubblicitaria. Non ama, invece, essere disturbata in quello che sta facendo”. Don Alessandro, con parole che come “proiettili” arrivano diritti al bersaglio, ha affermato che “bisogna contrastare la mafia combattendo il mafioso che è dentro di noi”. Questo è il compito di ogni formatore, di ogni cittadino”. Non è mancato un monito alla comunità ecclesiale: “la Chiesa agrigentina che vive la città degli uomini è chiamata ad essere fermento, lievito di una vita buona secondo il Vangelo. Sono convinto- ha detto – che è una vita secondo il Vangelo è un antidoto ad uno stile mafioso. La vita di Cristo ci insegna – ha proseguito – che non è ciò che entra dentro l’uomo a contar minare l’uomo ma ciò che esce dall’uomo. Dal nostro interno escono le intenzioni cattive che poi si manifestano in mille modi, inquinando la nostra società”. Per don Alessandro è importante lavorare sulle intenzioni e sulle emozioni del cuore. “Dal Vangelo impariamo – ha proseguito – che ogni prevaricazione è una tragica forma di solitudine, una incapacità di relazione… Ha poi continuato con una considerazione sul Crocifisso, anche su quelli esposti nei luoghi pubblici e per cui ogni tanto si accende la polemica se lasciarlo o toglierlo. “ Il crocifisso – ha detto – è bene che ci sia nei luoghi collettivi”. Ed ha precisato: “non tanto per un fatto cultuale ma perché ci ricorda che quel gesto smaschera ogni violenza”. Per don Alessandro la sfida da cogliere, al termine delle Giornate Sociali è quella dell’educazione dell’insegnare la vita di Cristo per contrastare la mafia e la sua cultura. “La comunità ecclesiale deve essere impegnata a interiorizzare gli atteggiamenti di Cristo, nel silenzio personale bisogna far emergere tutte quelle voci mafiose che sono nel nostro cuore. Dobbiamo – ha proseguito – curare i nostri pensieri travasando l’acqua buona del Vangelo in quella torbida che c’è dentro di noi”. Citando poi Evagrio Pontico, un Padre della chiesa che insegnava a contrapporre ad ogni pensiero cattivo, uno positivo delle sacre scritture, ha detto, “potrebbe essere un esercizio per la settimana Santa, ormai prossima…”, ed ha proseguito: “L’esperienza di don Pino Puglisi ci dice che di un prete la mafia non sopporta che smascheri il suo gioco, che frapponga ostacoli ai suoi progetti futuri con un’azione educativa. È una sfida – ha affermato – che a mi sembra interessante”. Andando al nocciolo della questione serie di ogni azioni “antimafia” ha affermato: “Ciò che la mafia odia è il prodotto più serio dell’educazione, ovvero la consapevolezza e l’assunzione della propria responsabilità personale. Questo è quello che ha fatto il giudice Rosario Angelo Livatino. Con questa scelta di vita ha trasfigurato la sua azione professionale. Tutti siamo chiamati a fare solo questo: avere piena consapevolezza e assunzione delle nostre responsabilità”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il card. Francesco Montenegro che, aprendo i lavori (vedi qui) delle Giornate ha stigmatizzato come della mafia nella società civile ed ecclesiale si parli poco. “La mia convinzione -ha detto- è che di proposito non se ne vuole parlare. La mafia nel nostro territorio agisce, molte volte ci conviviamo perché – ha proseguito – “è un modo di concepire la vita e riguarda anche la coscienza e la fede”. Per il card. Montenegro la mafia non può essere solo combattuta dalla magistratura o dalle forze dell’ordine. Essa non ha più bisogno del rumore delle armi, bastano un clic o un telefono ed ha tutto l’interesse di creare senso d’impotenza, di rassegnazione, di paura, di dipendenza. Ed è proprio questo modo di agire silenzioso, che porta all’omertà che diventa complicità. Molte volte – ha continuato – il nostro atteggiamento di ‘buoni’ è un atteggiamento che sa, anche, di mafia. Anche per don Franco c’è una battaglia culturale da fare, prima di tutto contro se stessi. Il tema antimafia – ha detto – chiama in campo tutti perché chi vive bene toglie terreno alla mafia. Urge un cambio di mentalità, perché – ha proseguito – tutti desideriamo la giustizia però ognuno tiene al suo prestigio, al ‘non sai chi sono io!’; tutti vogliamo l’onestà, però il compromesso è diventato un modo comune di vivere; tutti parliamo di servizio, anche se poi , probabilmente, cerchiamo il nostro interesse. Possiamo fare – ha detto – anche i cortei contro la mafia e la disonestà degli altri, però poi siamo quelli che vogliono imporre le nostre visioni partigiane. La mafia comincerà a scomparire – ha concluso – quando noi ci toglieremo le maschere che indossiamo, quando avremo il coraggio di vivere da cittadini, senza metterci contro gli altri ma camminare insieme agli altri”.
Insomma le parole dei nostri Pastori e di coloro che hanno dato il loro contributo di riflessione alle Giornate aprono sentieri, sono indicazioni che non possono cadere nel vuoto. Spetta, adesso, alla Chiesa agrigentina, nelle sue varie articolazioni, saperle cogliere e – anche alla luce della beatificazione del Giudice Rosario Livatino – declinarle in scelte pastorali e impegni educativi concreti.
VIDEO-SINTESI PER IMMAGINI DEGLI INTERVENTI CHE SI SONO SUCCEDUTI DURANTE LE GIORNATE DI STUDI SOCIALI (a cura di Carmelo Petrone)
23 Marzo:
- Saluti del Card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento (Vedi)
- ; Maria Rita Cocciufa, Prefetto di Agrigento (vedi).
- Interventi:
- “Il fenomeno della mafia nell’Agrigentino alla luce delle relazioni della Dia”, Roberto Cilona, capo sez. DIA di Agrigento (Vedi qui);
- “Il contrasto alla mafia”, Luigi Patronaggio, Procuratore della Repubblica di Agrigento (vedi qui);
- “L’Arma e il controllo del territorio” (colonnello Vittorio Stingo, comandante provinciale carabinieri Agrigento) (vedi qui).
- Testimonianza di: Luigi D’Angelo, già presidente Tribunale di Agrigento e collega del giudice Livatino (vedi qui)
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24 Marzo
Interventi:
– “Emergenza Mafia: a 30 anni dal documento del consiglio Pastorale Diocesano di Agrigento” don Alfonso Tortorici, già coordinatore del Cpd (vedi qui);
– “La prevenzione, opera capillare della Polizia di Stato”, dott.ssa Rosa Maria Iraci, Questore di Agrigento (vedi qui)
– “Mafia e affari”, Colonnello Rocco Lopane, Comandante provinciale Guardia di Finanza di Agrigento) (vedi qui).
Testimonianza di: Salvatore Cardinale, ex presidente Corte d’Appello di Caltanissetta e collega del giudice Livatino (vedi qui)
Conclusioni di mons. Alessandro Damiano, Arcivescovo Coadiutore di Agrigento (vedi qui)