A quanto ci è dato di vedere, maggio è ricco di commemorazioni. Per Agrigento e dintorni corre l’obbligo di ricordare anche due preti che hanno inciso molto e diversamente sul territorio e sulla società, morti a distanza di anni il 26 e il 30 del mese: mons. Domenico De Gregorio e don Stefano Pirrera.
Il primo fu direttore di questo giornale per anni e fu storico e uomo di cultura poliedrico, mentre Pirrera fu soprattutto un pedagogo e lo fu in quanto “teorico” della pedagogia, in quanto la insegnò per anni negli istituti magistrali, in quanto soprattutto ha cercato di realizzare in modo intelligente una pedagogia dell’umano e della fede cristiana. Entrambi, Domenico e Stefano, furono poeti dialettali e non solo. Accostarli in un comune ricordo è ovviamente problematico. Tento qui una via possibile e forse intrigante per altri approcci: la via della loro fanciullezza. Ovvero intendo praticare una breve ricognizione dei loro anni giovanili, quando entrambi erano, per così dire, allo stato indeterminato, ma sensibili e recettivi all’ambiente circostante, accomunati dagli stessi ideali della vocazione al modo di cellule staminali che si sarebbero però differenziati efficacemente con l’età. Per altro, colpisce il desiderio di entrambi di voler lasciare nei loro libri qualcosa della loro infanzia.
Per altro, Pirrera ha espresso tale idea, ovvero che la via migliore per conoscersi è ritornare ai pensieri dell’infanzia, alle percezioni incamerate e ai desideri di un tempo. Lo ha scritto nel suo volumetto delizioso ed evocativo del 2001: «Quando eravamo tutti più poveri». Confesso che lo avevo letto qualche tempo fa in forma corsiva, ma riprendendolo oggi in mano mi sono reso conto che vale la pena dedicarvi qualche momento in più. Vi troveremo intuizioni folgoranti e le scelte intelligenti dei vari esergo a ogni capitolo, con versi siciliani appropriati a ogni testo. Non c’è tema della vita che non vi sia toccato, ma tutto il testo è orientato alla problematica della formazione, che percepiva come punto dolente della società di inizio XXI secolo. E appunto scrive che «il vero grave problema, oggi, non è la globalizzazione, non è la pace in MO, non è la deforestazione […], il problema più grave è l’educazione delle nuove generazioni». Solo dieci anni più tardi la Chiesa italiana scelse come progetto per il decennio 2010-2020 l’Educare alla vita buona del Vangelo; Pirrera ne aveva intuito la gravità e l’urgenza nel 2001. Ciò non toglie che aveva perfetta coscienza dell’enorme difficoltà della trasmissione formativa tra le generazioni, delle difficoltà inerenti lo stesso progetto educativo pluralista del giorno d’oggi, ma tacere, scrive, sarebbe come lasciare che intervenga il caso, il fato. Pirrera non fu mai propenso a lasciare la mano libera al caso. Egli accompagnava sempre la fede con la ragione, mentre il suo tratto pedagogico caratteristico era la drammatizzazione dell’esperienza, provocata nei testi e incarnata nello sforzo dell’oralità ad ogni occasione propizia, dalle omelie agli incontri formativi nel territorio. La sua idea-guida di educazione umana e cristiana era stimolare le energie proprie di ciascuno, specie dei giovani. Non per niente, come esergo di un capitoletto del libro, scelse il detto di Eric Fromm: «Il compito principale dell’uomo nella vita è dare alla luce se stesso».
Passando a De Gregorio, se scorriamo i suoi libri, ci accorgiamo che il dato autobiografico. De Gregorio ama parlare di sé e della sua infanzia. Ricorda con affetto i suoi genitori, il paese natio, i giochi. Chi l’avrebbe sospettato che il compassato monsignore, protagonista della cultura agrigentina per almeno un cinquantennio da noi conosciuto, da bambino andava matto per il gioco! Nei tanti ricordi prodotti nei testi della sua fanciullezza, traspare però egualmente l’uomo del futuro. Nei libri di storia si lascia andare a considerazioni esistenziali estremamente umani. Come bambino, ad esempio, egli guarda gli uomini che tirano giù con forza le corde delle campane per uno scampanio eccellente, ma nei loro volti scorge le lacrime agli occhi, perché ricordavano tutto il tempo della guerra in cui le campane rimasero mute. Altrove confessa che, dopo la famiglia, la sua seconda scuola fu la matrice. Possiamo anche immaginare il piccolo Domenico che entra cautamente nella grande navata della chiesa e subito rimane rapito dalla bellezza: «Si restava incantati dinanzi a quello che sembrava uno spiraglio aperto al cielo: il quadrone della SS. Trinità, la Madonna, San Michele Arcangelo in atto di incensare, i santi protettori dai gesti significativi …». La bellezza, quella con la B maiuscola, goduta nell’infanzia fu il volano della sua attività culturale. La si ritrova, alla fine del ciclo dei cinque volumi dedicati alle notizie storiche sulla Chiesa di Agrigento, e nelle disilluse considerazioni sulla storia stessa. La Bellezza conforta la tristezza dello storico. Si sa quanto sia difficile dare un senso alla storia con le sue alternanze di bene e male, che sembra prevalere, ma da storico De Gregorio ringrazia Dio perché ha fatto della storia degli uomini una «memoria mirabilium», ovvero la storia altro non sarebbe stata che una memoria delle meraviglie del Signore. Una concezione ottimistica, dunque. Per tale visione, dovendo egli scegliere se la storia debba essere considerata una tragedia o un dramma, alla fine optò con Dante Alighieri che sarebbe meglio vederla come una Commedia, animata dalla speranza. «Poco vediamo, ma possediamo la certezza – alla Sua parola “ubbidiente l’avvenir rispose” [Manzoni, NdR] – che la Sua misericordia si stende di generazione in generazione: Egli è, infatti, Alfa e Omega».
Vincenzo Lombino