Si è tenuto sabato, 19 settembre, nell’Aula Magna del Tribunale di Agrigento il convegno – organizzato dalla sottosezione dell’ANM di Agrigento, presieduta da Giuseppe Miceli – “Il ruolo della magistratura a trent’anni dall’omicidio di Rosario Livatino”. All’incontro, moderato dalla giornalista Elvira Terranova, hanno preso parte il Presidente della Camera dei Deputati On.le Roberto Fico, il Procuratore Luigi Patronaggio, il Consigliere del CSM Antonino Di Matteo, l’Arcivescovo di Agrigento, Card. Francesco Montenegro.
A portare i saluti del Presidente del tribunale, il suo Vicario Alfonso Malato che ha notato come con il passare del tempo , non ha fatto dimenticare la figura del Giudice Livatino, anzi, anno dopo anno, Rosario è stato sempre più celebrato e ricordato non solo nel nostro territorio ma in tutto il Paese dalle Istituzioni e dalla Società Civile. Era – ha detto – un uomo straordinariamente normale. La sua figura si erge come modello, anche in un momento come il nostro – ha concluso – che si caratterizza anche per la crisi della Magistratura.
Ha preso poi la parola il presidente della sottosezione della ANM di Agrigento, dott. Giuseppe Miceli (foto a sinistra) che ha ricordato Livatino come magistrato straordinario, uomo mite, e persona perbene E ha dato ragione del tema scelto per il convegno che riprende una delle conferenze lasciate dal Giudice Livatino quella delle 1984, “Il ruolo del Giudice nella società che cambia”. In un contesto – ha dettoo – in cui la Magistratura italiana sta attraversando un momento di crisi e di perdita di credibilità e autorevolezza l’insegnamento di Livatino è di una attualità straordinaria, come un faro che indica la strada maestra: fare fino in fondo il proprio dovere.
A Seguire l’intervento del Presidente della Camera dei Deputati, On.le Roberto Fico (foto a destra). L’omicidio di Rosario Livatino – ha detto il Presidente della Camera – ha segnato la mia coscienza di studente e quella dei miei coetanei… Era un magistrato giovane, coraggioso, e determinato. Ricordare oggi Rosario, per il Presidente significa esprimere da parte delle istituzioni di tutto il Paese un doveroso omaggio nei confronti di un magistrato e cittadino che ha pagato con la vita il suo impegno nel combattere la criminalità organizzata, ma è anche un’occasione per ribadire l’ impegno con la comunità nazionale di mantenere viva e praticare quella cultura della legalità che uomini come Livatino, Falcone e Borsellino hanno indicato quale riferimento ideale imprescindibile. Il contrasto alla criminalità organizzata – ha proseguito- ha portato a risultati concreti grazie all’impegno costante della Magistratura e Forze dell’ordine, anche il Parlamento ha fatto la sua parte adeguando il quadro normativo, ma al tempo stesso – ha notato – sappiamo che la criminalità organizzata ha notevolmente ampliato la sua dimensione economica, la sua capacità camaleontica di controllare settori vitali della società e dell’economia; per questo è necessario che l’attenzione da parte di tutti sia ancora più alta in una fase piena di criticità come quella che stiamo vivendo segnata dal COVID. C’è il rischio che la mafia approfitti, citando fonti del Ministero dell’Interno e altri studi, di questa situazione per consolidarsi ancora di più… Impegno primario della politica delle istituzioni deve essere, pertanto, quello di stare accanto ai cittadini che non devono sentirsi abbandonati ma sostenuti in un percorso di rilancio che non lasci nessuno indietro. Lo Stato, ha detto, deve arrivare prima, con misure e risorse adeguate sbarrando la strada a tutte le mafie che si combattono con buone leggi, con giudici capaci, con il contributo essenziale delle forze dell’ ordine; ma questo non può bastare se non vi è a parte di tutta la comunità un’assunzione di responsabilità e una presa di coscienza che rifiuti il malaffare, il clientelismo, la politica che contraddice se stessa. Ricordare Rosario Livatino significa dunque sollecitare tutta la comunità nazionale a fare fronte comune e gettare le basi per un futuro non più gravato da ipoteche mafiose. Il giudice, diceva Livatino, “Oltre che essere, deve anche apparire indipendente. È importante che egli offra di se stesso l’immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, di persona equilibrata, di persona responsabile; e, potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha”. In queste parole, per Fico, “si riconoscono tutte le coordinate basilari del ruolo istituzionale che la Costituzione ha affidato all’ordine giudiziario e su come, quel ruolo, debba essere interpretato. È la lezione, immensa ed indimenticabile, del ‘giudice ragazzino…”.
A seguire, sollecitatati dale domande, puntuali della moderatrice, legate anche alle vicende di cronaca, sono intervenuti Il Procuratore Luigi Patronaggio e il Consigliere del CSM Antonino Di Matteo /foto a destra).
Per Luigi Patronaggio la magistratura deve recuperare prestigio sull’esempio di Livatino. “Quanto è lontano l’esempio e il comportamento di Rosario Livatino dagli sms di Palamara pubblicati dal Csm? La magistratura italiana ha bisogno di una vera e propria rivoluzione morale, necessaria per recuperare autorevolezza e prestigio”. Per Patronaggio, citando sondaggi e studi, la magistratura sta attraversando un momento di grave crisi e di credibilità nell’opione pubblica italiana. Il caso Palamara che ha fatto emergere uno spaccato clientelare dove la funzione giudiziaria non ha rappresentato il baluardo di democrazia e libertà e ha risposto a logiche di natura affaristica. E’ un grave danno per tutti noi – ha detto alla platea, composta prevalentemente da magistrati, per i magistrati onesti e per la gente onesta che dobbiamo servire. E allora – ha proseguito – quale migliore occasione del ricordo di Rosario Livatino per avviare una rivoluzione morale che restituisca credibilità e autorevolezza alla magistratura?”. Una indipendenza non solo all’esterno, ma anche al suo interno. “Non ci sono altre strade – ha concluso – che scuoterci e dare un segnale a tutti che vada in questa direzione”.
Il consigliere del Csm, Nino Di Matteo, commentando la recente notizia del permesso premio concesso a a Giuseppe Montanti, uno dei mandanti, 30 anni fa, dell’omicidio del giudice ha notato come. Ha chiesto con determinazione di soffocare sul nascere ogni pericoloso rischio di ritorno al passato. Ci ritroviamo – ha notato – in un contesto di opacità che credevamo appartenesse al passato, adesso non ci resta che reagire con orgoglio per restituire credibilità. Quello che è emerso nelle ultime inchieste – ha aggiunto – avremmo dovuto avere il coraggio di denunciarlo anche prima senza ipocrisie. Purtroppo tutti assistiamo a un collateralismo politico per cui certe indagini si fanno o non si fanno a seconda delle reazioni politiche che possono avere”. Di Matteo ha proseguito il suo intervento, parlando del contesto che ha portato all’omicidio del giudice Livatino, dicendo che “la nostra è l’unica mafia del mondo che è riuscita a realizzare una strage che ha colpito tutte le categorie: cittadini, professionisti, magistrati e politici…” Di Matteo ha puntato il dito su una certa politica dicendo come “la disinformazione e il muro di gomma su certi temi fa comodo. È meglio far credere che la mafia sia solo un’operazione di bassa macelleria sociale. In realtà è stata abbandonata volutamente l’idea di far piena luce sulle strage per il timore che emerga il vero contesto che ha ispirato quella stagione… Si dice speso che lo Stato ha vinto. Ma – ha affermato – non sono sicuro che lo Stato abbia davvero voluto vincere”.
Infine l’intervento del Card. Francesco Montenegro (foto a destra) che ha esordito citando l’intervista a Gaetano Puzzangaro, che ha ucciso il Giudice Livatino, rilasciata al giornalista Fabio Marchese Ragona. Alla domanda: “Perché ha deciso di testimoniare per la sua causa di beatificazione?” ha risposto: «Perché era mio dovere farlo. All’epoca non mi ero reso conto che Livatino lavorasse per i giovani, per una società migliore. Lavorava anche per me, che mi ero perso in quel mostro che fagocitava tutto».
Questa frase, ha detto il Cardinale “mi è sembrata molto forte e mi ha aiutato a riflettere su quanto è avvenuto allora e su quanto, anche oggi, possiamo imparare dal sacrificio del giudice Livatino. Desidero, insieme a voi, vivere questo anniversario – ha proseguito – proprio con la prospettiva del recupero di un evento che non ha riguardato la sola persona del giudice Livatino o quelle che lo hanno ucciso, ma interessa tutti perché Livatino ha lavorato anche per noi, per ognuno di noi, per questa terra di Sicilia, per la nostra società, per la chiesa…
Come sapete, stimolati dalle parole di San Giovanni Paolo II e incoraggiati da tante testimonianze attorno alla figura del giovane giudice di Canicattì – ha continuato – , la nostra diocesi ha deciso di avviare la fase diocesana della causa di beatificazione. Abbiamo raccolto le testimonianze che rendevano evidente lo spessore spirituale e di impegno civile del giudice Livatino e abbiamo inviato quanto era in nostro possesso alla Congregazione per i Santi affinché effettuasse le verifiche necessarie per appurare la santità di vita e l’eroicità delle virtù del caro Rosario. Come Chiesa ci sembrava giusto fare questi passaggi e speriamo di avere dei risultati positivi su questo iter che si è messo in movimento già all’indomani della morte di Livatino.
Al di là di questo passaggio – ha affermato L’Arcivescovo – che per quanti credono ha un valore particolare, rimane la domanda che si solleva ogni volta che si celebrano degli eventi o si ricordano delle persone che sono state barbaramente uccise da aggregazioni malavitose; la domanda può risultare superflua ma, per me, è necessaria: che senso ha vivere l’anniversario di uccisione di Livatino? E’ un atto dovuto oppure siamo in grado di arricchirlo con qualcosa che, nel frattempo, è cambiato? E’ un ricordo che serve a farci mettere la coscienza a posto oppure è uno stimolo a fare ancora di più per non vanificare quel sacrificio di sangue che ha segnato – insieme a tanti altri – la nostra terra? Ci guardiamo attorno – ha constatato don Franco – e constatiamo come, a distanza di tanti anni, le organizzazioni malavitose continuano a moltiplicare i loro affari, cambiano continuamente pelle ma non smettono di mettere le mani sulle risorse di questa terra, corrompono e bloccano processi di crescita e di sviluppo. La radiografia fatta dalla DIA non più tardi di qualche mese fa getta una luce sconfortante sul nostro territorio. Ogni angolo della nostra provincia risulta controllato da famiglie mafiose, da mandamenti e da gruppi che riescono a gestire flussi enormi di denaro attraverso l’usura, il commercio delle sostanze stupefacenti, il gioco d’azzardo, l’inserimento negli appalti pubblici, il pizzo, la prostituzione, il traffico di essere umani e tante altre prassi malate che lentamente stanno uccidendo la nostra terra.
Il ricordo di Livatino cade in questo contesto. E’ giusto che ce lo diciamo – ha detto ai presenti e a quanti seguivani in diretta streming – così come è doveroso capire perché, nonostante tanto sacrificio di sangue, la nostra provincia non riesce a liberarsi da logiche e impostazioni che, invece, sembrano continuare imperterrite il loro lavoro distruttivo. Sia chiaro, nessuno di noi è così ingenuo da pensare che le cose possano cambiare dall’oggi al domani o che il male possa scomparire dalla faccia della terra. Abbiamo tutti una visione realistica della storia e sappiamo che l’eterno confronto tra il bene e il male accompagnerà la vicenda umana fino all’ultimo giorno… Laddove vive e opera l’essere umano, proprio lì siamo certi troveremo impronte di bene e tracce di male… Ma sentiamo anche la necessità di coltivare un’idea di sviluppo in cui singoli e collettività sanno lavorare per potenziare il bene e per indebolire il male; si impegnano a realizzare processi positivi, intelligenti, saggi, sani, utili per neutralizzare le spinte egoistiche che orientano alla chiusura e alla morte e per favorire una crescita in cui sia salvaguardata la dignità di ogni persona, il suo sviluppo interiore, la creazione delle condizioni che rendono possibile la sua realizzazione, dentro una cornice in cui tutto il corpo sociale ne trova benefici per il presente e per il futuro. In questo senso, secondo me, Gaetano Puzzangaro, nella frase che citavo all’inizio, riconosceva che Livatino stava lavorando anche per lui. In un processo di revisione della sua vita, quell’uomo ha capito che l’impegno di Livatino prima ancora che essere il semplice adempimento del dovere di un servitore dello Stato era un lavoro per tutti, anche per lui, che si stava apprestando a ucciderlo.
Era un lavoro per la libertà di tutti, per la libertà dal male, da ogni forma di male, era un lavoro svolto per tentare di sradicare la mentalità mafiosa dal dna dei siciliani, per affrancarli dalla logica del “si è fatto sempre così” o dal pensare che questa terra è “destinata” ad essere controllata dalla mafia e dai mafiosi. È possibile che il semplice lavoro di un giudice, fosse animato da una simile impostazione? Stando a quanto Livatino diceva e testimoniava, verrebbe da dire “si”. Egli scriveva a proposito dell’ immagine del magistrato: «L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».
Il lavoro di Livatino è racchiuso dentro le parole appena citate: “trasparenza, moralità, indisponibilità a iniziative e affari, rinuncia a privilegi, credibilità…”. Egli era consapevole che, agendo in questo modo, si sarebbe potuto mettere un argine al male, lo si sarebbe potuto contrastare e vincere. Se ogni cittadino, ogni operatore del diritto, ogni politico, ogni cristiano, ogni impiegato pubblico, ogni professionista, ogni imprenditore… se tutti riuscissimo a fare nostre queste parole di Livatino si farebbe terra bruciata attorno al male, lo si indebolirebbe dall’interno, si porrebbe un freno alla deriva causata dalla mafia e dalle sue mille ramificazioni. Il lavoro che Livatino ci ha testimoniato è l’impegno per il bene dentro l’attività abbracciata e vissuta come autentica missione. Le testimonianze che abbiamo raccolto sul suo conto lo descrivono come una persona riservata, precisa, corretta e con una grande rettitudine interiore che gli ha permesso di tenere la spina dorsale dritta fino alla fine. In questo la fede cristiana lo ha certamente aiutato ma gli ideali di giustizia ai quali si era formato era così radicati in lui da sostenere le sue scelte e da motivare anche l’eroicità del gesto finale con il quale si è spenta la sua giovane esistenza.
Allora – ha concluso – mi sembra che da questo anniversario, si sollevi una domanda per tutti noi: “ci stiamo impegnando a lavorare fino in fondo per il bene comune e per la crescita di questa terra?” Più che limitarci a guardare a Livatino, a ricordare la sua testimonianza di giudice o elogiare il suo operato dovremmo interrogaci seriamente sulla nostra di testimonianza. Il sangue di Livatino è realtà che ci riguarda, ci interpella, ci interroga, mette a nudo le nostre ipocrisie, smaschera un certo perbenismo e ci inchioda in modo secco chiedendoci: “ma tu cosa stai facendo per il bene e per la crescita di Agrigento? Ti stai impegnando con tutte le tue forze? Sei capace di rinunciare al compromesso, ai privilegi da dare agli amici, alle piccole o grandi forme di ingiustizia? Qual è il prezzo che stai pagando o che sei disposto a pagare?”
Se lo viviamo così quest’anniversario acquista un valore; anzi, proprio questo è, a mio avviso, il modo migliore per ricordare Livatino. Dovremmo recarci nel posto dove si è consumato il suo martirio come in pellegrinaggio; da quel luogo di morte, se lo vogliamo può risorgere la nostra terra. Dal ricordo del giudice Livatino può prendere spinta il riscatto morale e civile di cui questa terra ha estremo bisogno; 30 anni nella comprensione di tutti è il tempo della maturazione di una persona, il tempo in cui si assumono scelte importanti per il futuro. A 30 anni si smette di essere ragazzi e si è pronti a portare la propria storia sulla spalle per darne un senso pieno. Sono passati 30 anni dalla morte di Livatino. E’ tempo di scelte mature. Non è tempo di parole o di ricordi. E’ tempo di dire: “adesso tocca a me!” Adesso devo fare io la mia parte, lì dove sono e dove lavoro; adesso proprio io devo dare il contributo di civiltà e di moralità che mi compete. Se faremo così e se ci assumeremo questa responsabilità il ricordo di Livatino non sarà vano; anzi, la memoria di questo nostro illustre conterraneo, ci darà la spinta che serve per dire “basta” alla mafia e a ogni forma malata di potere e dire di “si” al bene e a ogni forma di promozione della persona umana e di cultura della vita. E’ il mio augurio per noi e per questa magnifica terra agrigentina che da troppo tempo aspetta uno scatto d’impegno onesto di tutti i cittadini liberi, intelligenti e responsabili. E proprio in nome di quest’augurio sento di dire: “nel ricordo di Livatino, buon lavoro a tutti!”
IL VIDEO del Convegno (trasmesso sulla pagina Facebook dell’ANM sezione di Agrigento)
Il ruolo della Magistratura a 30 anni dall'omicidio di ROSARIO LIVATINO
In diretta dall'aula Livatino del tribunale di Agrigento
Pubblicato da ANM Sottosezione Agrigento su Sabato 19 settembre 2020