“Costruire un’economia diversa non solo è possibile, ma è l’unica via che abbiamo per salvarci e per essere all’altezza del nostro compito nel mondo. È in gioco la fedeltà al progetto di Dio sull’umanità”. A scriverlo sono i vescovi italiani, nel Messaggio per la festa del Primo Maggio, sul tema: “Il lavoro in un’economia sostenibile”. “Per ridare forza e dignità al lavoro dobbiamo curare la ferita dei nostri profondi divari territoriali”, la proposta, a partire dalla consapevolezza che “non esiste una sola Italia del lavoro, ma ‘diverse Italie’, con regioni e zone vicine alla piena occupazione – dove il problema diventa spesso quello di umanizzare il lavoro, vivendo il riposo della festa – e regioni dove il lavoro manca e costringe molti a migrare”. Da stigmatizzare, inoltre, la “schizofrenia del nostro atteggiamento verso i nostri fratelli migranti: sono sfruttati come forma quasi unica di manovalanza, a condizioni di lavoro non dignitose in molte aree del Paese. Dobbiamo saper trasformare le reti di protezione contro la povertà – essenziali in un mondo dove creazione e distruzione di posti di lavoro sono sempre più rapidi e frequenti – in strumenti che non tolgano dignità e desiderio di contribuire con il proprio sforzo al benessere del Paese”. “L’impegno sociale, politico ed economico per un lavoro degno – puntualizzano i vescovi – non passa attraverso la demonizzazione del progresso tecnologico, che può essere invece preziosissimo alleato per sconfiggere più rapidamente un’epidemia o aiutarci a coltivare relazioni affettive e di lavoro a distanza, in un momento di necessaria limitazione delle nostre libertà di movimento”. In ogni epoca della storia umana, infatti, “le rivoluzioni tecnologiche hanno sollevato i lavoratori dalla fatica e da mansioni ripetitive e poco generative, aumentando la creazione di ricchezza con la tendenza a concentrarla nelle mani dei pochi proprietari delle nuove tecnologie. Sono state le politiche fiscali progressive a redistribuire la maggiore ricchezza creata in occasione delle rivoluzioni tecnologiche nelle mani di molti, trasformandola in domanda diffusa e facendo nascere nuovi beni e servizi, attività, mestieri e professioni. Non è il progresso scientifico e tecnologico che ‘ruba’ il lavoro, ma l’incapacità delle politiche sociali ed economiche di redistribuire la maggiore ricchezza creata”.
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