Realmonte ricorda le 37 vittime del naufragio di “Rocca Gucciarda”. Le testimonianze dei realmontini

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La notte tra il 14 e il 15 settembre 2002, a Realmonte,  affondò un’imbarcazione a circa mezzo miglio da Capo Rossello, vicino alla Rocca Gucciarda, sul litorale realmontino, vennero restituiti dal mare e recuperati i corpi di 37 immigrati di nazionalità liberiana, 92, invece riescirono a scampare al naufragio. Il 15 settembre 2022, il sindaco di Realmonte, Sabrina Lattuca, il vicario generale dell’arcidiocesi di Agrigento, don Giuseppe Cumbo e don Fabio Maiorana, parroco della Chiesa madre di Realmonte, hanno deposto una corona di fiori sulla lapide collocata sullo scoglio in cui si consum la tragedia.

La manifestazione commemorativa, promossa dall’amministrazione comunale e dalla comunità ecclesiale si è aperta con la celebrazione della Santa Messa al Teatro Costabianca, alla presenza delle autorità militari e religiose, dei rappresentanti della Croce Rossa e dell’ass. Misericordia, dell’Ass. Acuarinto e di numerosi cittadini, a cui è seguito l’ascolto delle testimonianze dei realmontini che per primi accorsero la notte della tragedia, portando in salvo i naufraghi, come quella della signora Marilena Cottone, che ha ricordato con voce tremante i momenti esagitati della corsa ai primi aiuti tra tanta confusione, paura, lacrime e compostezza dei superstiti. Dopo la santa messa i presenti hanno formato un corteo ed arrivati sul litorale di Capo Rossello, le autorita? sono saliti a bordo di un gommone che li attendeva per raggiugere lo scoglio dove e? stata deposta la corona di fiori. “Questo è un giorno di ricordo – afferma il sindaco Sabrina Lattuca-ma anche di speranza, in cui è stato sottolineato che la politica deve attivare una strategia atta a scongiurare il verificarsi ed il ripetersi di tragedie come questa”.

Enzo CottoneGovernatore pro-tempore della Misericordia di Realmonte, ricorda così il naufragio:

Quella notte alcuni volontari della Confraternita Misericordia di Realmonte furono svegliati nel cuore della notte dalle Forze dell’Ordine locali. Era successo qualcosa di grave. Giovanni Fiannaca, Mimmo Cappello, Daniele Fiorilli, Giovanni Monachino e, subito dopo Franco Di Salvo e Pasqualino Tuttolomondo (reperibili, quella nottata, per le emergenze sanitarie – il “118” non esisteva ancora in Sicilia), intervennero con l’ambulanza a Lido Rossello. A seguito di disposizioni delle autorità presenti sul posto, alcuni di loro raggiunsero la banchina del porto di Porto Empedocle. Da lì a poco cominciarono ad arrivare le motovedette delle forze dell’Ordine e della Guardia Costiera con i sopravvissuti e tanti, tanti sacchi mortuari. I sopravvissuti in buone condizioni furono accompagnati al centro di accoglienza (all’epoca esistente) nella zona industriale di Agrigento mentre i feriti e i corpi degli sfortunati migranti deceduti furono portati rispettivamente al pronto soccorso e all’obitorio dell’ospedale di Agrigento. Fu una mattinata di inteso lavoro e di commozione inimmaginabile. Qualche tempo dopo, due coppie di immigrati furono ospitati nei locali della Misericordia di Realmonte e, dopo alcune settimane, nacquero ad Agrigento due femminucce. Una delle due coppie decise di rimanere a Realmonte, Qui, i coniugi e la bambina, accolti benevolmente, si integrarono nella comunità, trovarono lavoro e la realizzazione del sogno di un avvenire migliore. A un anno dalla tragedia, sempre presso il Teatro Costabianca di Realmonte, si svolse una manifestazione commemorativa. Venne celebrata una messa di suffragio dal Vicario della Diocesi di Agrigento e venne realizzata una lapide commemorativa in bronzo, donata dallo scultore canicattinese Lillo Costanza, in memoria dei migranti deceduti”.

Milena Cottone ci racconta che era a casa di amici per festeggiare un compleanno. “La serata – ricorda – prometteva bene e così fu deciso di cenare fuori. Fra una chiacchierata e l’altra, decisi di fare quattro passi attorno alla casa. Poi, seduta per qualche istante sui gradini della scalinata, riuscivo a intravedere il luccichio del mare. Quella visione mi rilassava, quando all’improvviso scorsi una barca. Lo stato di benessere lasciò così spazio ad un senso di inquietudine: infatti, resami conto del fatto che si trattava di una grande imbarcazione (per la distanza che passava fra la luce verde che segna la destra, e la luce rossa del lato sinistro), mi parve da subito che fosse troppo vicina agli scogli della secca che si trova di fronte alla Rocca Bianca. Lì per lì non comprendevo la tragicità della situazione. Ritornai dunque dagli altri, ma non facemmo in tempo a finire di cantare una canzone che un vento furioso ci costrinse a scappare dentro casa. Appena fu chiusa la porta, iniziò a grandinare, e nel contempo si alzò un vento impetuoso. Dopo pochi minuti, cessata la tempesta, aprimmo le porte e quello che si presentò ai nostri occhi fu uno spettacolo sconvolgente: sul pavimento esterno, fra le aiuole, sui muretti di confine, insomma ovunque era pieno di grandine, grande quanto palline da tennis. Nessuno prima di quella sera aveva mai assistito ad un evento di tale portata. Probabilmente erano i prodromi di quelli che oggi chiamiamo “uragani del Mediterraneo”.

la rocca con la targa in ricordo del naufragio

Mentre ritornavo a casa – prosegue – , scorsi strani segnali: iniziai a sentire dei rumori confusi provenienti dalla spiaggia, vedevo gente che correva e agitava, disperata, le mani. Poi, ad un tratto, qualcuno vicino a me gridò: “Sbarcaru, sbarcaru, sunnu  assa!”. Mi avvicinai e capii che in realtà si stava consumando una tragedia sotto ai miei occhi: donne e uomini, scampati al mare in tempesta, si affrettavano a raggiungere il locale Playa, che intanto iniziava man mano a diventare un punto di primo soccorso. Mi avvicinai a una di loro e chiesi in quanti fossero sul barcone.  “Più di cento”, mi rispose in inglese con un filo di voce. In un primo momento, rimasi attonita, non mi aspettavo potessero essere così tanti. Dopo qualche secondo, però, capii che non potevo lasciare spazio al panico o alla riflessione, e dunque iniziai a correre verso casa per prendere tutto ciò che potesse servire loro per riscaldarsi: coperte, maglioni, camicie di mio marito, teli da mare. Ritornai da loro e iniziai a distribuire quegli indumenti. Qualcuno chiedeva con voce disperata notizie del marito: “My husband? My husband?” E cosa mai potevo rispondere? Avrei voluto con tutto il mio cuore rispondere: “Tranquilla, tutti salvi!”. E invece non fu così: il mare nei giorni seguenti restituì trentasette corpi. Novantadue fu invece il bilancio di quanti riuscirono a scampare alla crudele sorte. Erano arrivati a pochi metri dalla costa, vicini alla salvezza e a una vita nuova, quando l’uragano di vento, pioggia e grandine spezzò i loro sogni. Il barcone, incagliato nella secca davanti agli scogli della Rocca Gucciarda, inclinandosi iniziò ad imbarcare acqua; fu la fine. Due immagini – conclude Milena- resteranno sempre scolpite nella mia mente: in primo luogo, il coraggio di un uomo della Polizia di Stato che, tolti i vestiti, si gettò fra le onde pericolose per dare conforto e rassicurare i naufraghi sull’arrivo imminente dei soccorsi; poi, mi rimarrà impressa nei ricordi quell’eccezionale compostezza dei superstiti che avevano trovato rifugio sulla Rocca Gucciarda. Costoro, nonostante fossero stremati dalle fatiche di un lungo viaggio e dalla recente tempesta, si ergevano fermi sullo scoglio come delle statue di roccia dura, con lo sguardo fisso verso la grande luce del faro dei Vigili del Fuoco che intanto li illuminava. E finalmente fu l’alba, e i suoi caldi colori abbracciarono per sempre le trentasette anime”.

 

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