Questi giorni il rischio contagio da Covid-19 ci sta portando a vivere una sorta di “cattività” in casa nostra trasformando il mondo delle relazioni interpersonali ma anche acuendo la solitudine di alcune categorie di soggetti. Gli anziani che adesso non hanno più la possibilità di scambiare qualche parola con la vicina di casa o i bambini costretti a riscoprire il mondo casalingo e a trasformarne gli spazi in luoghi di svago. Ma, tra i soggetti maggiormente emarginati e dimenticati, vi sono i carcerati. Persone che vivono la restrizione della libertà per avere commesso azioni delittuose che, in questi giorni, vedono totalmente annullati i momenti di socialità soprattutto i colloqui con i parenti. Accanto a loro gli appartenenti al corpo della Polizia Penitenziaria che si trovano a dover fronteggiare le difficoltà che emergono in un ambiente, quello carcerario, deficitario anche in tempi normali. Abbiamo incontrato don Luigi Mazzocchio, cappellano del carcere di Agrigento per farci raccontare quello che accade dentro le mura del De Lorenzo.
Come stanno vivendo questi giorni di emergenza Covid – 19 i detenuti del carcere di Agrigento?
Per grazia di Dio non abbiamo avuto contagi tra i detenuti e questo è una cosa importante. L’emergenza coronavirus ha messo in secondo piano tutte le altre emergenze della vita carceraria. Si avverte una certa tensione sia nei detenuti che negli agenti. La paura corre nei reparti soprattutto per il pensiero delle famiglie che stanno fuori. Avendo però la possibilità di chiamare a casa ogni giorno, il clima si mantiene piuttosto sereno. E questo grazie allo sforzo della polizia penitenziaria che sta sostenendo il carico maggiore di questa situazione.
Come è cambiata la vita al De Lorenzo?
L’isolamento è rimasto lo stesso ma acuito dalla mancanza dei colloqui con i familiari e dalla cessazione di ogni attività trattamentale. Chiuse le scuole e i laboratori, chiusi gli accessi ai volontari e agli avvocati, aperto lo smart working per gli educatori e parte del personale amministrativo, gli unici che si muovono all’interno dei reparti, eccettuata la polizia penitenziaria, sono il Cappellano e gli psicologi.
Quali le criticità emerse o acuitesi in questi giorni?
La cosa che appare più evidente e critica è che si è acuito lo stacco tra gli educatori e i detenuti. In una situazione in cui i tribunali e gli avvocati hanno ridotto il loro lavoro e la legge consente ad alcuni detenuti di poter beneficiare della detenzione domiciliare, gli stessi sono sempre in attesa di un colloquio con gli educatori che possa chiarire la loro posizione giuridica.
Ma al di là delle pratiche giuridiche che possono essere anche svolte dietro ad un computer, credo che in questo momento l’attività trattamentale dovrebbe essere potenziata con quel “faccia a faccia” che solo fa sentire il detenuto una persona e non un numero e dia un senso alla funzione rieducatrice della pena.
Cosa possiamo fare noi dall’esterno per i detenuti?
Pregare innanzitutto. Pregare perché la detenzione possa convertirsi in un processo virtuoso che predisponga i soggetti a cercare un modo nuovo di proporsi al mondo che li aspetta. Pregare per tutti gli operatori perché si sentano educatori e non semplici impiegati. Poi contribuire attraverso la Caritas con contributi di solidarietà che possano provvedere ai bisogni dei detenuti indigenti, quali vestiario, prodotti per l’igiene, aiuti economici per poter telefonare alle famiglie. Infine sentirsi non lontani dal carcere perché quello vero lo si porta dentro.