Martedì 24 gennaio si è tenuta presso la Sala Livatino del Seminario Arcivescovile la Prolusione dell’anno accademico dello Studio Teologico “S. Gregorio Agrigentino” (STSA). Il tema scelto è stato: “disincantarsi dal disincanto: la critica di Pirandello alla modernità”. Il relatore chiamato quest’anno a dare vita all’incontro è stato don Massimo Naro, presbitero della diocesi di Caltanissetta e docente di Teologia Sistematica presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista” di Palermo. Hanno partecipato all’evento, alla presenza dell’Arcivescovo Alessandro e del Prefetto degli Studi don Rino Lauricella, nonché delle autorità civili e militari, gli studenti e i docenti dello Studio oltre ad un numeroso uditorio che ha colto l’occasione, nonostante il maltempo, di beneficiare di questo momento di arricchimento culturale, che sugella l’inaugurazione delle attività didattiche.
Il Prefetto degli Studi don Rino Lauricella ha introdotto la Prolusione, presentando don Massimo e i suoi studi, che si concentrano particolarmente sul rapporto tra letteratura e teologia. Si è poi soffermato sul tema di essa, molto particolare e stimolante. “Obiettivo del nostro Studio Teologico” – ha affermato don Rino – “è la conoscenza meticolosa della Teologia per una cosciente e attiva partecipazione dei nostri studenti alla vita della Chiesa”. Parte integrante di tale formazione è il dialogo con il mondo variegato che ci circonda e la sua lettura alla luce della fede. “È questo il motivo che ha spinto a pensare come argomento della Prolusione una riflessione sulla figura di Pirandello” – ha concluso il Prefetto – “con particolare attenzione alla critica brillante che egli offre della moderna società umana”.
Dopo questo momento iniziale, la Prolusione è entrata nel vivo con l’intervento di don Massimo Naro. Il docente ha presentato non tanto una rassegna dell’opera letteraria pirandelliana, quanto invece un vero e proprio viaggio alla scoperta del contesto culturale ed esistenziale di Pirandello, che si riflette nelle sue opere e nel suo pensiero. Egli si fa interprete di un periodo caratterizzato da un disincanto del disincanto: non ci si fida più né della razionalità scientifica né di Dio, ci si ritrova in una realtà senza più certezze. Pirandello critica con forza i mali della tecnica, tra cui la disumanizzazione dell’uomo, la perdita del sacro, temi attualissimi. La stessa fede è un argomento caro all’autore, nonostante egli fosse un agnostico. Pirandello pensa – afferma don Massimo con abbondanti riferimenti alle sue opere – “che la modernità da un lato smonti e privi d’importanza il Cristianesimo, dall’altro sia un pungolo al suo miglioramento” e sembra dirci che “una fede che non si rinnovi rischia di far credere in un dio che non esiste, e creare un disincanto e una disillusione ancora più terribile”. La fede è anche al centro del tema del lanternino: l’uomo, che sente di vivere nel buio del non senso, ha bisogno di lanternini, di piccole luci che, se non possono diradare il buio, scoprire la verità o risolvere alcunché, almeno gli illuminino lo spazio appena sufficiente per continuare il cammino. La fede è uno di questi lumi, che Pirandello non vede come la spiegazione del mistero di Dio: “non è un lanternino buono per vedere nella notte” – dice don Massimo – “ma una luce buona soltanto ad essere visti da Dio”, e questo basta; è una fede perduta e flebile, ma che pure vibra nell’uomo. Si vede qui il rapporto di Pirandello, complicato, affascinante e mai risolto, con la fede. Era agnostico eppure, nelle sue parole in una lettera privata a Silvio D’Amico, si definiva “religiosissimo”, e continuava: “sento e penso Dio in tutto ciò che penso e sento”. Pirandello ci interessa in questa sua inquietudine, conclude don Massimo; non perché sia un santo o un grande teologo, ma perché la sua esistenza “è un luogo teologico, in cui possiamo cercare e da cui possiamo attingere un nuovo discorso su Dio, che dica qualcosa all’uomo d’oggi”.
Al termine dell’intervento di don Massimo l’Arcivescovo, dopo averlo ringraziato, affida ai presenti una sua riflessione a chiusura dell’incontro. Ricorda che “la Teologia serve non solo ad insegnare la Parola di Dio, ma anche la modalità in cui viene detta, insegna a ridire parole di bene, che bene-dicono; soprattutto in un mondo in cui è in atto, secondo Papa Francesco, una terza guerra mondiale a pezzi, combattuta non solo con le armi, ma anche con le parole”, che offendono nei social o si esprimono con narrazioni che travisano i fatti nell’informazione. La Parola di Dio segue invece le modalità della “mitezza e dell’umiltà di cuore, specialmente nella sua autorivelazione in Gesù di Nazareth”. La Teologia è anche “conversione del pensiero”, deve spingere chi la studia a chiedersi “penso da cristiano o da pagano?”; è la base per pensare e costruire la Chiesa nei luoghi in cui ciò deve avvenire, le nostre comunità. Conclude l’Arcivescovo: “lo studio della Teologia deve insegnarci a dire parole di vita, parole creatrici, perché danno vita al di là e oltre la morte, parole di resurrezione”.
Simone Zambuto