«Volevamo braccia, sono arrivati uomini». È la frase con la quale lo scrittore svizzero Max Frisch, alla metà degli anni ’70, cercò di spiegare perché troppi connazionali fossero così ostili agli immigrati italiani, giunti nella loro Nazione. Una frase di drammatica attualità, ancor più se riferita a un settore, quello agricolo, fiore all’occhiello e motore dell’economia di alcune aree della provincia di Agrigento, specie quelle del versante occidentale. Ma ciò che conta non è quel che si vede, in questo viaggio, ma il sommerso fatto di sfruttamento, illegalità e indifferenza.
Il reportage pubblicato da Avvenire
Siamo a Ribera, in un caldo pomeriggio, tra gli agrumeti, gli uliveti e i vigneti che costeggiano la strada che da Borgo Bonsignore conduce al centro: campi ben tenuti, con il fiore all’occhiello delle arance, le famose “Navel”. «Ribera – spiega Federico Spagnesi, della Caritas diocesana – fonda la propria economia su un serbatoio costante di lavoratori precari per mantenere un livello di prezzi adeguati al mercato. La filiera produttiva prevede tanti piccoli imprenditori che, uniti in Consorzi, hanno allacciato rapporti anche con la Coop nazionale. La manodopera per la raccolta delle arance è reclutata normalmente tra cittadini stranieri che da dicembre/gennaio cominciano a trasferirsi qui». Lo sfruttamento non si vede, ma basta entrare nei ghetti dimenticati da tutti per capire.
La prima tappa del viaggio è via Tevere. Non una vera strada, ma un grande cortile, tra degli edifici fatiscenti la cui costruzione non è stata ultimata, chiuso da un cancello. Dietro di esso due uomini. Dall’aspetto sembrano nordafricani, parlano tra loro animatamente. Gli edifici, anche se privi di finestre, porte, luce, acqua e gas sono abitati, lo si comprende dalle coperte utilizzate come tapparelle di fortuna e dagli abiti stesi ad asciugare. Quello che colpisce è che via Tevere è racchiusa in un contesto di normalità. A destra e a sinistra di questo piccolo ghetto, abitazioni ben mantenute con tanto di gerani ai balconi e piante all’ingresso. Come se via Tevere fosse un buco vuoto, non esistesse.
«Qui – dice Spagnesi – nel periodo della raccolta delle olive e delle arance abitavano molti dei migranti che lavoravano nei campi. Come vedi tutto è di fortuna». Tutto è sotto la luce del sole, tutto accade tra la normalità del vivere quotidiano, come se via Tevere fosse da sempre lì con il suo carico di umanità invisibile. Nei locali messi a disposizione dai padri vocazionisti sorge, dal dicembre 2010, il Centro di solidarietà “La Palma” che opera anche grazie al contributo di Caritas diocesana Agrigento. Qui ha sede il centro di ascolto cittadino e sono attivi i servizi di guardaroba, lavanderia, docce, pasto caldo. «Da ottobre a dicembre 2016 – racconta Nardina Mangiacavallo, altra volontaria Caritas – abbiamo avuto 160 ospiti, da gennaio a fine maggio 2017 il loro numero è calato a 110. Abbiamo fornito 6.700 pasti in 7 mesi».
Chi sono i giovani mandati nei campi? Per la maggior parte arrivano dalla Tunisia, giungono a Ribera attraverso un tam tam sui social network o contatti telefonici direttamente con i datori di lavoro, se già hanno lavorato qui, oppure attraverso connazionali stabilmente residenti in Sicilia. La paga? Poco più di 4 euro all’ora, per 9 ore al giorno. In via Fani, la situazione è la stessa: mancanza totale di servizi, buchi nei muri poi rinchiusi con porte di fortuna. Ci sono ancora degli ospiti in alcuni degli appartamenti. Lo si capisce dalle coperte messe a schermare i balconi e le finestre, dalle piccole discariche nei cortili e da alcuni uomini che bevono birra accanto al vicino campetto. Tutto intorno è degrado. «È proprio il sistema del reclutamento della manodopera che, in alcuni casi, spinge all’illegalità» spiegano i sindacati. Una situazione di schiavitù invisibile, anche da parte di chi avrebbe occhi per vedere.
Pubblicato su Avvenire, mercoledì 11 luglio